Karl Jaspers, Delirio di gelosia, edizione italiana a cura di Stefania Achella, Raffaello Cortina Editore, Milano 2015, pp. 154
Recensione di
Alessia Araneo
in P.A. Masullo, M. Anzalone (a cura di), Medicina tra scienza e filosofia, «Studi Jaspersiani», V (2017), pp. 248-251.
L’insufficienza del modello anatomo-patologico, nonché la pluralità delle teorie e delle prassi mediche (Evidence Based Medicine, Narrative Based Medicine, medicina evoluzionistica, medicina genomica, Life-History Theory, medicina predittiva, medicina personalizzata, etc.) contribuiscono a complicare e a ridefinire costantemente lo statuto epistemologico della medicina, quale sapere in evoluzione tra arte e scienza.
Come osserva acutamente Stefano Canali «il termine “medicina” è storicamente relativo, oltre che indeterminato e polisemico. L’aggettivo “scientifico”, d’altronde, dovrebbe fare riferimento a qualcosa, la scienza, che non è un oggetto stabile e monolitico, bensì un variegato complesso, storicamente mutevole, di forme di conoscenza disciplinari caratterizzate da metodologie e oggetti di indagine molto diversi» (S. Canali, La medicina scientifica, in Filosofia della medicina, a cura di A. Pagnini, Carocci, Roma 2010, p. 81). Questa epistemologia, per così dire, “aperta” della medicina ha fortemente risentito di quella “disputa sui metodi” (Methodenstreit) che si è sviluppata in Germania, a partire dal tardo Ottocento, e che, attraverso il contributo di Wilhelm Dilthey, ha condotto alla distinzione tra le Naturwissenschaften (scienze della natura) e le Geisteswissenschaften (scienze dello spirito).
Ed è proprio nel solco di questa crisi interna alla scienza che la figura di Karl Jaspers diventa cruciale, grazie all’introduzione di alcune categorie che hanno contribuito a una diversa comprensione del sapere psicopatologico. Nel saggio Delirio di gelosia. Un contributo alla questione: “sviluppo di una personalità” o “processo”? (Eifersuchtswahn. Ein Beitrag zur Frage: ‘Entwicklung einer Persönlichkeit’ oder ‘Prozess’?), pubblicato nel 1910, e ora tradotto per la prima volta in italiano, emergono chiaramente alcuni puntelli della visione jaspersiana.
Jaspers riflette sul tema della gelosia, che diventa occasione, poi, per operare alcune distinzioni concettuali fondamentali. Autore di uno spostamento dell’asse dell’attenzione sul piano della soggettività, Jaspers si fa promotore di una psicologia descrittiva e soggettiva, oggi diremmo idiografica e narrativa, che si avvale di un metodo fenomenologico. Come sottolineato nitidamente da Stefania Achella, nella sua introduzione al testo, «a colpire, nell’approccio jaspersiano a questi temi, è l’attenzione euristica che egli dedica all’elemento biografico: le vite dei pazienti assumono un ruolo importante nella comprensione di queste patologie» (pp. XIII-XIV).
La centralità riconosciuta alla soggettività indica, inoltre, il posizionamento di Jaspers rispetto al dibattito che animava la psichiatria dei quegli anni, attestatosi su una polarizzazione tra coloro che intendevano ridurre i disturbi psichici a lesioni cerebrali (Somatiker) e coloro che li riconducevano a problemi di origine psicologica (Psychiker). Egli avversa ogni forma di riduzionismo, respingendo tanto l’appiattimento della soggettività all’anatomia cerebrale quanto l’imposizione di categorie dall’alto, senza alcuna attenzione per l’esperienza.
Pur consapevole della «inesauribilità e dell’enigmaticità di ogni singolo uomo malato di mente» (p. 3), Jaspers caldeggia la necessità di ricorrere al pluralismo metodologico, che, come puntualizzato dalla curatrice, «consiste appunto nella necessità di guardare la malattia mentale da diversi punti di vista, a condizione di fornire a ciascuno di essi una fondazione scientifica» (p. XV).
Questo principio euristico si traduce, concretamente, nel modo in cui Jaspers presenta i quattro casi trattati all’interno del testo. Egli realizza un montaggio parallelo, affiancando il punto di vista soggettivo (che è quello del racconto) al punto di vista oggettivo (perizia, atti giuridici, descrizione clinica, testimonianze). Il confronto tra le versioni rivela un totale scollamento, sintomatico della netta cesura creatasi tra la soggettività e il mondo. Ed è questa forma del rapporto uomo-mondo a interessare il medico filosofo, ancor più del contenuto. Illuminanti, a tal proposito, le parole di Stefania Achella: «Risalire alla soggettività, andando oltre il sintomo e cogliendo, nella malattia, il segno, la cifra di un’intera esistenza. È il nucleo del metodo fenomenologico. Di qui l’interesse alla forma piuttosto che al contenuto del delirio, al come, anziché al cosa» (p. XXIII).
A partire dalle biografie, dalle auto-descrizioni del malato, dalle interrogazioni del medico e dalle altre documentazioni non si perviene, induttivamente, a una classificazione nosografica dei sintomi generali della malattia, bensì all’identificazione dei sintomi particolari di quella malattia. La categoria di cui si avvale Jaspers è quella dell’idealtipo, ossia di una norma generale che non perde mai il contatto con il particolare concreto. La descrizione della malattia, quindi, non è mai disancorata dal soggetto che ne è portatore. Riconosciuta l’indispensabilità strumentale e procedurale delle categorie generali, non bisogna cedere alla loro assolutizzazione. È lo stesso Jaspers a metterci in guardia: «Ma non possiamo aspettarci di far rientrare senza residuo tutti i singoli casi in questi concetti, che – come tutti i concetti – costituiscono delle astrazioni e non delle realtà» (p. 108).
Questo costante rapporto con la realtà empirica e con l’uomo “in carne e ossa” consente al medico-filosofo di differenziare tra loro i deliri di gelosia. Come chiaramente osservato anche nell’introduzione al testo, Jaspers opera una distinzione tra «gelosia psicologica e gelosia morbosa da un lato, e gelosia delirante e delirio di gelosia dall’altro» (p. XVI).
Se nelle prime due forme di gelosia si registra il perdurare di una certa capacità critica da parte del soggetto, nelle ultime due, invece, si riscontra una totale impermeabilità a ogni forma di critica. Per riconoscere e discriminare le diverse forme di gelosia e, dunque, per analizzare la vita psichica di un individuo, esistono due modi possibili: «ci immedesimiamo nell’altro, ci mettiamo nei panni dell’altro e “comprendiamo”; oppure consideriamo i singoli elementi dei fenomeni (…) nella loro connessione e nella loro successione come un dato (…). Cioè “concepiamo”» (pp. 62-63).
La comprensione, che avviene attraverso immedesimazione ed empatia, consente di realizzare un «afferramento della personalità» (p. 67), ossia di cogliere l’unità, l’essenza e l’interezza del soggetto, «un’unità che non possiamo definire ma solo esperire» (p. 66). Fatta questa distinzione, risulta più agevole capire perché la gelosia psicologica e quella morbosa siano passibili di comprensione e perché, al contrario, la gelosia delirante e il delirio di gelosia si possano solo concepire o, come si dirà più tardi, spiegare.
Le prime due rientrano, infatti, in quello che Jaspers definisce “sviluppo di una personalità”: in questo caso, gli eventi morbosi acquistano significato e possono essere giustificati alla luce di un complesso intreccio di connessioni psicologiche e razionali, che, pur con tutte le possibili disarmonie e difformità, preserva una certa unitarietà e coerenza. Si può parlare di sviluppo di una personalità laddove «possiamo trovarci eventualmente dinanzi a una grande varietà, ma l’unità della personalità ci appare mantenuta nella sua specificità, dalla crescita fino al declino» (p. 69).
Quando, invece, un evento morboso nuovo, eterogeneo fa irruzione e interrompe lo sviluppo di una personalità, ponendosi in netta discontinuità rispetto alla biografia del soggetto, allora qualsiasi tentativo di immedesimazione e di empatia fallisce. A questo proposito, l’Autore introduce la nozione di “processo”: «I processi costituiscono delle trasformazioni incurabili della vita psichica, eterogenee rispetto alla personalità precedente, che intervengono in tale vita psichica in maniera unica e isolata, oppure ripetutamente e generalmente, o in tutte le gradazioni tra queste possibilità» (p. 71). In tal caso, si potranno solo conoscere i sintomi e i fenomeni della cosa stessa, ma non comprenderli. A caratterizzare l’esperienza del delirio è l’impossibilità per questi soggetti di condividere il proprio mondo, dal momento che si è del tutto abbandonato il mondo comune.
Al cospetto di una simile perdita del mondo, «non c’è comprensione della vita psichica di questi uomini, ma solo la possibilità, da parte del medico, di rivolgersi a essi a partire da quell’ethos comune che ci rende tutti e comunque sempre e solo uomini» (p. XXVIII).